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Gli Islandesi inventori del romanzo? Sviluppo e generi della saga islandese

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Saga islandese, manoscritto miniato del XIII sec. (via the guardian)

Fulvio Ferrari

Come tutti gli uomini, i popoli hanno il loro destino. Avere e perdere è la comune vicenda dei popoli. Essere sul punto di avere tutto e perdere tutto è il tragico destino tedesco. Più strano e più simile a un sogno è il destino scandinavo. Per la storia universale, le guerre e i libri scandinavi è come se non fossero esistiti; rimangono isolati e non lasciano traccia, come se si fossero verificati in sogno o in quelle sfere di cristallo che scrutano gli indovini. Nel secolo XII, gli islandesi scoprono il romanzo, l’arte di Cervantes e di Flaubert, e questa scoperta è segreta e sterile per il resto del mondo, così come la loro scoperta dell’America.
(Jorge Luis Borges, Literaturas germanicas medievales, Buenos Aires 1978; trad. it. Roma-Napoli 1984)

Questa riflessione di Borges, assai celebre e assai spesso citata, ha indubbiamente il merito di porre la questione del rapporto tra due generi letterari: uno moderno, il romanzo (almeno nel senso in cui lo intendiamo oggi), e uno medievale, la saga islandese. Se possiamo serenamente escludere tra i due generi qualsiasi rapporto di filiazione, è però il caso di chiederci se davvero la cultura islandese dei secoli XII-XV abbia prodotto un tipo di narrazione che presenti caratteristiche tali da poter essere assimilata al romanzo moderno. Le conclusioni a cui giungeremo, infatti, non saranno irrilevanti per una analisi della ricezione del patrimonio narrativo antico-nordico nella cultura contemporanea, e porranno sotto una nuova luce la questione della presenza della letteratura medievale all’interno del sistema letterario di oggi, non come suo antecedente, ma come sua componente dinamica.

La prima domanda da porci, dunque, sarà piuttosto semplice nella sua secchezza: cosa c’è di romanzesco nella saga? Il problema, naturalmente, si nasconde nella definizione di ‘romanzesco’. Non è mia intenzione addentrarmi qui in una riflessione che da tempo impegna i teorici della letteratura e i comparatisti, mi rifarò quindi a una definizione che mi sembra funzionale alla nostra discussione. Adotterò così due criteri guida per l’identificazione del carattere ‘romanzesco’:

1. la possibilità di identificare procedimenti di costruzione di un mondo finzionale;

2. la possibilità di identificare consapevoli strategie di narrazione e una istanza narrativa principale che coordina e organizza gerarchicamente la pluralità di voci presenti nel testo.

Prima però di verificare in che misura le saghe islandesi soddisfino questi due criteri, è necessario fornire un quadro, per quanto sintetico, di quell’insieme di testi letterari a cui normalmente ci si riferisce con l’etichetta di ‘saga islandese’. La saga, infatti, non costituisce affatto un genere unitario, e con questa etichetta indichiamo in realtà un corpus che comprende testi molto diversi tra di loro. Applicabile a tutte le saghe, comunque, è la definizione di ‘testi narrativi in prosa’, ed è sicuramente questo, il fatto di essere composte in prosa, il carattere che immediatamente induce a un confronto con il romanzo moderno, ben più di quanto non accada nel caso del romanzo medievale propriamente detto, sia di area germanica che di area romanza, che è invece composto in versi.

Di versi, a dire il vero, se ne trovano parecchi anche nelle saghe, dove di frequente i personaggi si esprimono facendo uso delle forme tradizionali della poesia nordica, in particolare – ma non solo –  del metro epico per eccellenza, il fornyrðislag, tanto che per alcuni di questi testi si tende a utilizzare la definizione di prosimetro allo scopo di sottolineare la compresenza di sezioni in versi e di sezioni in prosa. Questa presenza della poesia all’interno della prosa è indubbiamente significativa, e forse costituisce un prezioso indizio sulla storia della composizione delle saghe, che, almeno in origine, erano probabilmente ampliamenti in prosa di nuclei narrativi o drammatici tramandati in versi, ma non rappresenta una costante di tutte le saghe: abbiamo infatti saghe con una fortissima presenza di sezioni poetiche, ma anche saghe in cui non viene tramandato nemmeno un verso.

Negli studi di letteratura e filologia nordica è ormai invalsa una articolazione del corpus in generi, individuati sia sulla base del tipo di materia narrativa elaborata, sia, in misura minore, su alcune caratteristiche stilistiche. Questa suddivisione in generi appare per molti versi discutibile, ed è difatti stata messa assai spesso in discussione, ma rappresenta un quadro di riferimento che conserva, a mio parere, una sua utilità euristica. Secondo questa classificazione, dunque, il corpus delle saghe si suddivide in:

- Saghe dei re (Konungasögur), a carattere storiografico, vi si raccontano le vicende di sovrani e di dinastie della Scandinavia;

- Saghe degli Islandesi (Íslendingasögur), testi in stile prevalentemente realistico, narrano le storie degli Islandesi vissuti nel periodo compreso tra la colonizzazione dell’isola (fine del IX secolo) e la conversione al Cristianesimo (nell’anno 1000);

- Saghe del tempo antico (Fornaldarsögur), ambientate nel mondo nordico nell’epoca precedente la colonizzazione dell’Islanda;

- Saghe dei contemporanei (Samtiðarsögur), narrano in stile realistico le vicende storiche islandesi nei secoli XII-XIV;

- Saghe dei vescovi (Biskupasögur), con uno stile e un tono che rimandano sia alla storiografia, sia all’agiografia, narrano le vite dei vescovi islandesi dal XII al XIVsecolo;

- Saghe dei santi (Heiligra manna sögur), testi agiografici solitamente tradotti da modelli latini o tedeschi;

- Saghe dei cavalieri (Riddarasögur), gruppo in cui vengono comprese sia le traduzioni in prosa (islandesi o norvegesi) di letteratura narrativa cortese continentale (Riddarasögur tradotte), sia i testi redatti in Islanda sul modello di questa letteratura (Riddarasögur originali).

Nel corso degli ultimi due secoli il giudizio critico su questi gruppi di saghe si è modificato più volte radicalmente, conformemente agli orientamenti del gusto e delle ideologie culturalmente dominanti. Così, se per i romantici le saghe più interessanti erano quelle che narravano di un’epoca antica e avvolta nelle nebbie della leggenda, la critica di fine Ottocento e inizio del Novecento ha posto al vertice della sua graduatoria di valore le saghe più realistiche e più affidabili come documenti delle condizioni di vita dell’Islanda medievale. Nella seconda metà del Novecento proprio questa affidabilità storica delle saghe ‘realistiche’ è stata messa in discussione, ed è prevalso un atteggiamento che vedeva nelle saghe un prodotto di invenzione artistica più che di registrazione della memoria storica. Una maggiore apertura critica – cui non è forse estranea la rivalutazione del fantastico in letteratura avvenuta negli ultimi decenni del Novecento – ha quindi portato a una rilettura critica di tutti i generi delle saghe, a prescindere da gerarchie di validità estetica, sempre discutibili e sicuramente estranee al mondo medievale che questi testi ha prodotto.

Certo è che non è possibile individuare nei diversi generi della saga le tappe di una evoluzione e tanto meno, come hanno creduto alcuni (e tra questi lo stesso Borges), di una degenerazione. Le più antiche Saghe dei re risalgono alla fine del XII secolo, di poco successive sono sicuramente le più antiche Saghe degli Islandesi, e conosciamo con certezza la data di composizione della prima Riddarasaga tradotta, la Tristrams saga ok ĺsöndar (Saga di Tristano e Isotta), la cui traduzione venne eseguita nel 1226 dal monaco Robert su incarico del re di Norvegia Hákon Hákonarson. È possibile che la prima Saga del tempo antico a essere messa per iscritto sia stata la Örvar Odds saga (Saga di Oddr ‘Punta di freccia’, o Saga di Oddr l’arciere), intorno al 1260, ma è anche vero che la prima parte della Storia dei re di Norvegia (Heimskringla) composta nella prima metà del XIII secolo dal più celebre scrittore dell’Islanda medievale, Snorri Sturluson, presenta tutti i tratti stilistici di questo genere letterario. Per quanto, insomma, si possano datare a momenti differenti – ma non molto lontani tra di loro – i primi esempi dei diversi generi della saga, questi generi si evolvono poi contemporaneamente, nell’ambito di un unico sistema letterario, nel corso del lungo Medioevo islandese, contaminandosi e influenzandosi a vicenda, conservando però caratteristiche proprie che, nonostante tutti i dubbi e tutte le riserve, quasi sempre ci consentono di collocare i diversi testi in uno dei gruppi che abbiamo elencato.

Fino dalle origini, comunque, è evidente che i diversi tipi di saga seguono diverse strategie di costruzione dei loro mondi. I generi individuati dalla critica, in questo senso, possono quindi essere definiti (anche) come gruppi di testi che condividono l’ambientazione in uno stesso mondo finzionale. Mi sembra opportuno rilevare, a questo punto, come – con l’eccezione delle Riddarasögur e delle Heilagra manna sögur – i generi della saga esibiscano tutti un rapporto ambiguo con la memoria. Saghe del tempo antico, dei re, degli Islandesi, dei contemporanei, dei vescovi: tutte si presentano come racconti di fasi diverse della storia della comunità nordica. I generi differiscono però fortemente per il tipo di memoria tramandata ed elaborata letterariamente: le Saghe del tempo antico, o almeno parte di esse, riprendono leggende tramandate oralmente da secoli e le riformulano seguendo modelli compositivi mutuati dalle tradizioni genealogiche e, forse, dalla costruzione biografica dell’agiografia. Una tale manipolazione di materiale antico non può che avvenire nel rispetto dei vincoli posti dalla cultura letteraria e religiosa in cui le saghe vengono composte, e gli autori devono quindi risemantizzare e rifunzionalizzare le figure appartenenti alla tradizione religiosa precristiana. Ne nasce un mondo finzionale sospeso tra memoria storica, leggenda e mito, con aree di penombra in cui si evita di definire con chiarezza la natura delle antiche divinità, o la si definisce in modo contraddittorio. In questo stesso mondo vengono poi ambientate altre storie, altre Saghe del tempo antico che sono però frutto di imitazione letteraria e che – per quanto riusciamo a capire – non rielaborano materiale tradizionale, ma a volte ricavano le loro narrazioni da un puro atto di invenzione, altre volte dal patrimonio internazionale delle fiabe e del folklore.

Vincoli diversi devono rispettare le Saghe degli Islandesi, le Saghe dei contemporanei e quelle dei vescovi: in misura minore o maggiore, si tratta qui di eventi iscritti nella memoria della comunità: più ci si avvicina al presente dell’autore, o del compilatore, e più sono vivi i ricordi degli eventi narrati o, almeno, i ricordi delle testimonianze delle generazioni precedenti sugli eventi narrati. Ma anche in questi casi il materiale memoriale viene indubbiamente riorganizzato secondo schemi narrativi letterari, e nel mondo del passato ricostruito nel testo e dal testo vengono proiettati interessi, concezioni, inquietudini del presente. Le Saghe dei re, poi, presentano caratteristiche proprie delle Saghe del tempo antico, degli Islandesi o dei contemporanei a seconda che le vicende narrate si collochino nell’epoca aurorale precedente alla formazione dei tre grandi regni nordici (Norvegia, Danimarca e Svezia) e alla colonizzazione dell’Islanda o su un piano temporale più vicino a quello dell’autore. Nel caso della Heimskringla di Snorri, che abbraccia un arco storico che va dall’epoca mitica della fondazione del regno di Svezia fino alle soglie della contemporaneità, le differenze stilistiche tra le diverse parti rispecchiano la ricchezza di differenze che riscontriamo tra i diversi generi della saga.

Se dunque diversi tipi di saga costruiscono diversi mondi finzionali, dobbiamo chiederci a quali strategie facciano ricorso gli autori per operare questa costruzione e per orientare i loro lettori all’interno di questi mondi. Già l’apertura di una saga fornisce al suo pubblico le prime informazioni necessarie a determinare un orizzonte di attesa sul testo che si sta incominciando a leggere (o ad ascoltare, visto che la modalità di comunicazione delle saghe era prevalentemente la lettura pubblica ad alta voce). Poiché le strategie narrative, il tipo di personaggi che popolano il racconto, i loro obiettivi e le loro azioni sono ampiamente determinati dalla collocazione spazio-temporale della vicenda narrata, le prime righe di ogni saga introducono il lettore – ascoltatore, ma d’ora in poi ci accontenteremo della definizione ‘lettore’, pur consapevoli della sua inadeguatezza –  in uno scenario geograficamente definito – il che può significare definito con precisione, con vaghezza o del tutto astratto – e individuato (o non individuato) sulla linea del tempo. Dove lo scenario risulta astratto dal punto di vista spaziale e non definito dal punto di vista temporale, il lettore può attendersi un racconto ambientato al di fuori della storia della comunità e del suo mondo, e comprende quindi di trovarsi nell’universo narrativo delle Saghe dei cavalieri. Dove invece, ad esempio, lo scenario è quello dell’Islanda e il racconto si apre con una precisa indicazione dei personaggi principali, della loro genealogia e del luogo dove vivono, ci troviamo in uno spazio noto alla comunità, conforme alla sua esperienza, e la narrazione si colloca all’interno di una memoria condivisa: la saga avrà dunque come protagonisti degli Islandesi e, a seconda che la storia sia avvenuta in un passato recente o lontano, potremo collocarla tra le Saghe degli Islandesi o tra quelle dei contemporanei. Se l’azione ha inizio in Scandinavia, ma fuori dall’Islanda, si può trattare di una saga degli Islandesi il cui racconto ha inizio con le generazioni precedenti a quella che ha lasciato la madrepatria e si è trasferita in Islanda, oppure con una saga del tempo antico. In quest’ultimo caso l’ambientazione sarà preferibilmente nelle zone marginali del mondo nordico (almeno dal punto di vista islandese): l’Helgeland, all’estremo Nord della Norvegia, confinante con le misteriose popolazioni sami, oppure le foreste del Götaland, tra Norvegia e Svezia, o la Russia, paese di cui si conservava nel Nord il ricordo – o la leggenda – di una origine nordica, ma che era ormai indubbiamente altra cosa rispetto alla cultura scandinava dell’epoca. Oltre alle indicazioni spazio-temporali, altri indizi possono subito orientare il lettore: all’inizio della Sverris saga, una delle più antiche Saghe dei re, si fa un preciso riferimento a Karl Jónsson – autore almeno della prima parte della saga – e si sottolinea l’affidabilità storica del testo, indirizzando così la ricezione del lettore che si preparerà a un racconto essenzialmente storiografico, dove poca parte hanno le avventure esotiche e gli incontri con creature straordinarie.

I primi capitoli delle saghe dichiarano così – se non sempre, assai spesso – il programma narrativo del testo e attivano, con una serie di segnali, i differenti orizzonti di attesa nel pubblico che ci autorizzano a parlare, sia pure con grande prudenza, di ‘generi della saga’. Dobbiamo ora chiederci come vengano strutturati, popolati e – per esprimerci con Umberto Eco – ammobiliati i mondi finzionali verso cui questi segnali dirigono il lettore. A questo scopo ritengo utile la classificazione delle modalità narrative proposta da Lubomír Doležel nel libro Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, pubblicato in traduzione italiana nel 1999. Inserendosi nella discussione sulla teoria filosofica dei mondi possibili e sulla sua applicazione in ambito letterario, Doležel individua una serie di modalità la cui applicazione al testo letterario ne determina le caratteristiche di mondo. In estrema sintesi, queste modalità sono le seguenti:

- aletica (possibile, impossibile, necessario);

- deontica (permesso, proibito, obbligatorio);

- assiologica (buono, cattivo, indifferente);

- epistemica (noto, ignoto, creduto).

Naturalmente molto può essere ridefinito, precisato e modificato relativamente a questa proposta di griglia attraverso cui leggere il testo, ma credo che per i nostri obiettivi questa classificazione possa essere di grande utilità. E’ infatti a seconda di come queste modalità vengono applicate al mondo finzionale e a ognuno dei suoi personaggi che possiamo identificare diverse strategie narrative nei diversi tipi di saga.

Se, per fare alcuni esempi, prendiamo in esame il modo in cui i mondi vengono costruiti rispettando le restrizioni imposte dalla modalità aletica, noteremo subito che nelle Saghe del tempo antico possono comparire esseri estranei al nostro mondo reale, esseri quasi sempre derivati dalla mitologia pre-cristiana: giganti, nani, divinità declassate e rifunzionalizzate come spiriti naturali, demoni infernali o maghi. La dotazione aletica dell’eroe, inoltre, può essere straordinaria per natura o venire rafforzata grazie alla magia o all’intervento di esseri soprannaturali: Hrolfr, nella Göngu-Hrolfs saga (Saga di Hrolfr il camminatore), ha una tale statura da non poter montare a cavallo; Oddr, nella Örvar Odds saga, è destinato a una vita lunghissima, e la sua dotazione aletica viene ulteriormente rafforzata da una veste di invulnerabilità e da frecce che non possono mai mancare il bersaglio.

Un personaggio come Egill Skallagrímsson, protagonista di una delle più celebri Saghe degli Islandesi (la Egils saga Skallagrímssonar) ha una dotazione aletica così straordinaria da spezzare i limiti del realismo, e agli occhi di un lettore moderno può sembrare che la saga si ambienti in un mondo alternativo a quello reale. Non è però questo il caso: chi conosce la cultura nordica medievale si rende facilmente conto che Egill è sì un personaggio di eccezione, ma le caratteristiche che lo differenziano da chiunque altro non sono che l’abnorme potenziamento di qualità ‘naturali’ (la capacità di bere oltre misura, l’abilità di comporre versi già in età infantile, l’immensa forza fisica) o la manifestazione di fenomeni soprannaturali (la licantropia) ritenuti possibili nel contesto culturale in cui la saga è stata composta.

In generale, possiamo osservare che la magia, la profezia, la presenza di essere soprannaturali e d’oltretomba nelle Saghe degli Islandesi non delineano un mondo altro rispetto a quello ‘reale’ che gli Islandesi del Medioevo ritenevano di abitare: anche l’immagine del mondo condivisa da una comunità è un costrutto culturale, e quanto viene creduto – non affrontiamo qui la questione dei possibili diversi gradi e modi di fede in quanto viene creduto – fa a buon diritto parte della realtà definita in un certo tempo, in un certo luogo, da un certo gruppo sociale. Il che, naturalmente, significa che noi – che apparteniamo a un altro tempo, a un altro luogo e a un altro gruppo sociale – tendiamo a leggere un testo ‘realistico’ dell’Islanda medievale secondo tutt’altre griglie e con un ben diverso orizzonte d’attesa.

Radicalmente altro, per gli Islandesi del Medioevo, era invece il mondo delle Saghe dei cavalieri, un mondo in cui troviamo all’opera lo stesso principio di astrazione individuato da Max Lüthi nella sua analisi della fiaba popolare europea: non solo ci troviamo qui in un tempo indefinito, svincolato da ogni credibile cronologia, ma lo spazio è composto da una serie indefinita di parcelle tra loro indipendenti e liberamente accostabili o allontanabili. In questi testi, i personaggi possono muoversi senza alcuna difficoltà passando immediatamente dall’India alla Francia, dalla Siria alla Spagna; oppure possono allontanarsi tanto dal loro regno in un solo giorno di viaggio da giungere in terre in cui l’incomparabile fama del loro sovrano è del tutto ignota. E in questo universo può comparire ogni genere di creatura, derivata dai modelli cortesi e cavallereschi continentali o dal folklore internazionale.

Passando ora alla modalità deontica (che ha inevitabili connessioni con quella assiologica), possiamo notare come – nonostante le saghe siano state composte come testi scritti in un’epoca in cui l’Islanda era ormai cristiana da almeno un paio di secoli – sia pienamente valida la tradizionale obbligatorietà della vendetta. Un insulto che arreca disonore, l’omicidio di un congiunto o di un fratello di sangue sono potenti spinte motivazionali che mettono in moto il meccanismo narrativo in tutti i generi della saga (fatta eccezione, naturalmente, per i testi agiografici). Per converso, vale l’interdizione – in questo caso, probabilmente, rafforzata o addirittura causata dalla conversione al Cristianesimo – di certe pratiche magiche, mai chiaramente illustrate, ai personaggi maschili. Il fatto che un maschio si dedichi alla pratica magica e divinatoria del seiðr difficilmente può dare il via a un’azione narrativa, ma lo colloca immediatamente, secondo le coordinate assiologiche del genere, nel campo degli inaffidabili e dei malvagi.

Soprattutto per quanto riguarda le Saghe del tempo antico, e le sezioni di alcune Saghe dei re ambientate nell’epoca precedente alla conversione al Cristianesimo, hanno particolare rilevanza le restrizioni epistemiche. L’autore della saga scritta è sempre un cristiano, e spesso anche un sacerdote. Dal suo punto di vista, dunque, egli è in possesso di una conoscenza – la verità rivelata del Cristianesimo – preclusa ai suoi personaggi. Questo richiede l’adozione di particolari strategie di caratterizzazione delle figure collocate – assiologicamente – nel campo del ‘bene’. Presentare un eroe “del tempo antico” come un idolatra – il che, nelle concezioni dell’epoca, equivaleva a presentarlo come un demonolatra – significava comprometterne fortemente la positività, ma d’altro canto sarebbe stato un anacronismo farne un cristiano quando la predicazione cristiana non era ancora arrivata nelle terre del Nord. All’autore rimaneva dunque aperta la strada del silenzio, non toccando affatto la sfera della religione, oppure poteva conferire al suo personaggio una straordinaria capacità di discernimento, insufficiente a conoscere la verità rivelata, ma sufficiente a rendersi conto della inaccettabilità del culto pagano. Nascono così le figure dei ‘nobili atei’, che disprezzando le divinità della tradizione religiosa nordica abbandonano qualsiasi pratica religiosa e si affidano solo alla propria forza. Nella Hrolfs saga Kráka (Saga di Hrolfr Kráki) è la voce stessa del narratore a sottolineare come il re danese Hrolfr non potesse che fare affidamento solo su se stesso, perché nel suo paese non era ancora giunto il Cristianesimo. Nella Örvar Odds saga il protagonista, dopo aver rifiutato il paganesimo ed essersi affidato solo alla propria forza, giunge casualmente in Sicilia, e ha così l’occasione di convertirsi e morire, infine, da buon cristiano.

Un’ultima osservazione riguarda la costruzione dello spazio entro cui si muovono i personaggi della saga. Abbiamo già notato come il mondo astratto delle Saghe dei cavalieri sia privo di legami con la geografia del mondo reale, e i nomi mutuati da quest’ultimo siano spogliati di qualsiasi funzione denotativa. Diversa è la questione per quanto riguarda i generi ‘autoctoni’ della saga, in particolare per le Saghe del tempo antico, le Saghe dei re e le Saghe degli Islandesi. In queste saghe, quando l’azione si concentra nei luoghi più familiari all’autore e alla sua comunità – l’Islanda, la Groenlandia, certe aree della Scandinavia continentale – lo spazio finzionale tende a sovrapporsi a quello della geografia ‘reale’. Allontanandosi però da questi luoghi, pienamente illuminati dalla conoscenza e dalla frequentazione, lo spazio tende ad assumere una conformazione cui contribuiscono sia le conoscenze geografiche sul mondo, sia le concezioni cosmologiche ereditate dall’epoca pre-cristiana. Così, intorno a un centro noto e familiare, costituito dall’area nordica e da quelle più frequentate dai commerci e dalle relazioni internazionali (Inghilterra, Germania, paesi baltici, con qualche variazione di testo in testo), si articola una geografia almeno parzialmente mitica: il Nord (Lapponia) e il Nord Est (Finlandia, Carelia, regioni intorno al Mar Bianco) sono i luoghi della mostruosità e del disordine, abitati da genti dedite alla magia, luoghi in cui si riconosce la versione declassata e secolarizzata dei miti sul Jötunheimr, la Terra dei giganti. Pericolose sono anche le aree dell’estremo Ovest, il selvaggio Vinland (coste orientali del Canada), l’Irlanda popolata da abili maghi. Il Sud (Francia, Italia, Impero bizantino) è invece la regione dello splendore e della civiltà, oltre che del Cristianesimo, oltre alla quale si intravede il misterioso Serkland, la terra dei Saraceni.

Venendo ora alla questione delle strategie di narrazione, conviene partire da uno dei luoghi comuni più diffusi sul conto della saga, vale a dire la sua obiettività. In termini narratologici, diremo dunque che, almeno in generale, le saghe islandesi sono testi caratterizzati dalla presenza di un narratore extradiegetico ed eterodiegetico e da costante focalizzazione esterna. Queste strategie mirano indubbiamente a creare un effetto di realtà, a suscitare l’impressione di una relazione distaccata e strettamente aderente ai fatti, e tuttavia non si può affatto affermare che le saghe rinuncino a dare informazioni sulle reazioni psicologiche dei personaggi né che la narrazione si mantenga ‘neutrale’ nei conflitti rappresentati.

Riguardo alla psicologia, dobbiamo tenere conto di un sistema di segni non verbali, codificato e comprensibile al pubblico, in grado di rivelare il pensiero o i sentimenti di un personaggio senza venire meno alla focalizzazione esterna. Si prenda ad esempio questo passo della Knýtlinga saga (Saga della stirpe di Knútr) in cui si descrive il momento in cui il principe danese Knútr Sveinsson – il futuro re Knútr IV il santo – viene a sapere che le assemblee popolari danesi gli hanno preferito il fratello Haraldr come successore al padre sul trono:

En er Knútr heyrði þetta sagt, stóð hann þegar upp ok gekk í brott ok til skipa sinna. En er hann kom á skipin, þá undruðusk allir menn, þeir er hann sá, hvílikr hann var. Sumur hugðu, at hann væri sárr orðinn, því at andlit hans var svá rautt sem blóð. Hann settisk niðr á hásætiskistuna ok mælti ekki.

Ma quando Knútr venne a saperlo si alzò immediatamente e andò alle sue navi. E quando giunse alle navi, tutti quelli che lo videro si domandarono che cosa avesse. Alcuni pensarono che fosse ferito, perché il suo volto era rosso come il sangue. Si sedette sulla cassa accanto al posto d’onore e non disse nulla.

(Knýtlinga saga, ed. Bjarni Guðnason, p. 142)

Il colorarsi di rosso, come il rimanere in silenzio, sono segnali convenzionali di collera, e il lettore medievale non aveva dubbi sullo stato d’animo con cui Knútr aveva accolto la notizia.

Il narratore, inteso come istanza organizzatrice del testo, ha inoltre a sua disposizione diversi strumenti per indirizzare l’attività di ricezione e interpretazione del lettore senza rinunciare allo ‘stile obiettivo’. Come abbiamo già visto, l’attribuzione ad alcuni personaggi di comportamenti che risultano proibiti secondo le restrizioni deontiche del mondo narrativo rappresentato li colloca già nel campo del male, contribuendo così a chiarire la distribuzione di ruoli positivi e negativi all’interno del testo. A questa caratterizzazione negativa possono contribuire anche osservazioni, apparentemente neutre, che hanno a che fare con l’origine etnica o con pratiche religiose. Affermare  che qualcuno ha sangue sami o finnico, o definirlo un operatore di sacrifici rituali (blótmaðr), attiva un orizzonte di attesa negativo, il lettore sa che, presumibilmente, quel personaggio si rivelerà malvagio, incline al tradimento o a pratiche di magia nera. Eccezioni naturalmente sono possibili: blótmaðr, ad esempio, è il padre adottivo di Oddr l’arciere, un personaggio che non si macchia di nessuna colpa evidente. Ma proprio il fatto di essere legato alle pratiche pagane ha la funzione, nella saga, di giustificare la rottura con Oddr e di giustificare la partenza dell’eroe, dando così il via alle sue avventure.

Oltre alle origini etniche e alle pratiche religiose, infine, anche la descrizione fisica può svolgere la funzione di indicare le qualità morali dei personaggi: nella Knýtlinga saga Knútr è alto, forte e bellissimo, mentre suo fratello Óláfr, infido e incapace, viene descritto come brutto e di bassa statura.

La narrazione della saga è attribuita a una voce autorevole, che interviene nel testo raccordando i diversi segmenti e gli scenari narrativi, si fa carico della diegesi e introduce le scene dialogate:

Nú er at segja frá ferð þeira Odds; er þeir koma til haugsins, mælti Oddr…

Si deve ora raccontare della spedizione di Oddr e dei suoi; quando furono giunti al tumulo, Oddr disse…

(Örvar-Odds saga, ed. Fulvio Ferrari, pp. 98-99)

Eptir þat er ekki sagt frá ferð þeira, fyrr en þeir kómu heim i Hrafnistu, ok var þá mikit af vetri.

Dopo questi avvenimenti non si racconta piú nulla del loro viaggio finché non giunsero a casa, a Hrafnista, ed era allora inverno inoltrato.

(Örvar-Odds saga, ed. Fulvio Ferrari, pp. 122-123)

Questa voce evita di pronunciare direttamente giudizi sul comportamento dei personaggi. Oltre però a mediare valutazioni etiche per mezzo di osservazioni fattuali, il narratore orienta il lettore attribuendo frequentemente un giudizio o il disvelamento di un enigma a dei soggetti secondari indefiniti, secondo il modello “è opinione di molti che…” “c’è chi afferma che…”. Nella versione più recente – e più lunga – della Örvar Odds saga, dopo che l’ambiguo e misterioso personaggio Rauðgrani si allontana dal protagonista per non comparire mai più, la voce narrante commenta: “Þykkir mönnum sem Óðinn muni þat verit hafa reyndar” (“Era opinione della gente che in realtà si trattasse di Odino”).

Nel caso che il giudizio o il disvelamento venga invece attribuito a uno dei personaggi della saga, andrà valutato criticamente il grado autorevolezza assegnato dal testo al personaggio per poter giungere a conclusioni sulla probabilità che egli sia utilizzato come portavoce del narratore.

Questo modo di condurre la narrazione, che rifugge da una esplicita assunzione di responsabilità da parte del narratore e assegna al lettore un ampio ruolo di cooperazione nel determinare il senso del racconto, può aprire estesi spazi di ambiguità, tanto più nel momento in cui, con il trascorrere del tempo e il profondo mutamento del sistema culturale, il lettore moderno trova sempre più opachi i segnali inscritti nel testo. Prendendo ancora una volta ad esempio la Knýtlinga saga: nel XXVIII capitolo vi si narra di come Knútr, ormai re di Danimarca, abbia uno scontro verbale con i contadini del Halland, riuniti in assemblea, a proposito dei reciproci diritti e doveri. Dopo avere riferito il diverbio, il narratore annota laconicamente: “Í þann tíma var drepinn bóndinn, sá er mest hafði svarat konungi” (“A quel tempo venne ucciso il contadino che più aveva contraddetto il re”). In questa affermazione c’è chi ha voluto vedere una presa di distanza del narratore dalla politica del re, ma questo contraddirebbe – a mio parere – tutta l’impostazione della saga. In modo altrettanto legittimo si può vedere nell’uccisione del contadino la manifestazione della collera divina contro chi si opponeva alla missione di un re santo. Resta il fatto che, probabilmente, abbiamo oggi perduto la capacità di riconoscere tutti i segnali e le implicazioni testuali, dal che risulta la nostra difficoltà a leggere tra le righe della saga.

Al termine di questa nostra riflessione, naturalmente, non siamo arrivati là dove era impossibile arrivare: chiederci se la saga islandese è un romanzo è una domanda passabilmente oziosa e in quanto tale non può ricevere una risposta soddisfacente. Quello che però mi sembra si possa affermare con certezza è che, pur con le differenze che sussistono tra i diversi generi della saga –  e anche all’interno dei generi – tutte le saghe soddisfano la definizione di ‘romanzesco’ da cui abbiamo preso le mosse. Che questi testi siano in prosa è sicuramente l’elemento che più suscita l’impressione di somiglianza con il romanzo moderno; la (quasi) costante presenza di un narratore extradiegetico ed eterodiegetico è invece l’elemento che più appare estraneo, con effetti di arcaismo o, al contrario, di sconcertante modernità.

Il carattere letterario delle saghe islandesi, naturalmente, non può significare una negazione della loro capacità di fornire informazioni sulla storia dei popoli nordici. Non solo, soprattutto in alcuni generi di saghe, si conserva la memoria di eventi e di usi di un lontano passato – memoria che non può mai essere assunta acriticamente come indiscutibile testimonianza di una realtà storica e deve essere sempre sottoposta a un rigoroso vaglio critico – ma la selezione stessa di questo materiale, il modo di presentarlo, i giudizi implicitamente presenti nel testo, le allusioni e le scale di valori rappresentano altrettante informazioni sulla cultura islandese che questi testi ha prodotto in una delle stagioni creative più sorprendenti del Medioevo europeo.

Analizzare le saghe islandesi e ricavarne informazioni sulla cultura che le ha prodotte è essenzialmente compito del filologo. Altra cosa – non meno interessante – è prenderne in esame la straordinaria vitalità nella cultura contemporanea. Le saghe continuano a essere tradotte e a essere lette. Dalle saghe si ricavano film, fumetti, poesie, nuovi romanzi che le riformulano secondo le regole del moderno romanzo storico o del fantasy. Questa vitalità, che negli ultimi anni ha attratto l’attenzione di diversi studiosi in tutto il mondo, è per certi versi un fenomeno ancora da analizzare e da interpretare, ma credo che la caratteristica di essere testi in prosa che aprono al lettore l’accesso a mondi esotici e fantastici, senza perdere la qualità di essere testi originali, appartenenti a un passato lontano e affascinante, ha certo contribuito a fare delle saghe uno dei generi letterari medievali che con meno difficoltà continuano a parlare al pubblico del presente.

Nota bibliografica
Nel corso degli ultimi decenni è notevolmente aumentato il numero di saghe islandesi disponibili in traduzione italiana. Mi limito qui a segnalarne alcune, a mio parere di particolare interesse. In primo luogo la Saga di Egill e la Saga di Njall, entrambe tradotte da Marcello Meli e pubblicate da Mondadori. Sempre tradotta da Marcello Meli e pubblicata da Mondadori è inoltre la Saga degli uomini delle Orcadi. La celebre Saga di Erik il rosso è disponibile, insieme alla Saga dei Groenlandesi, in una traduzione curata da Rita Caprini per l’editore Pratiche (Parma, 1995), mentre la Saga di Gunnlaugr Lingua di serpente è stata tradotta da Gianna Chiesa Isnardi e pubblicata dalle Edizioni dell’Orso. Un’altra saga degli Islandesi, la Saga di Hrafnkell è stata tradotta da Maria Cristina Lombardi e pubblicata da Iperborea. Ancora Iperborea ha pubblicato alcune saghe ‘del tempo antico’: la Saga di Egill il monco e la Saga di Oddr l’arciere, tradotte da Fulvio Ferrari (quest’ultima ripubblicata poi con testo originale a fronte da Rizzoli nella collana BUR classici); la Saga di Gautrekr, tradotta da Massimiliano Bampi, e la Saga di Ragnarr, tradotta da Marcello Meli.
Quanto ai testi – a carattere teorico – citati nella lezione, riporto qui le necessarie indicazioni bibliografiche:
- Lubomír Doležel, Heterocosmica. Fiction and Possible Worlds, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1998; trad. it. Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Bompiani, Milano 1999.
- Umberto Eco, Piccoli mondi, in I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 2004 (quarta edizione);
- Max Lüthi, Das europäische Volksmärchen – Form und Wesen, Francke, Bern 1947; trad. it. La fiaba popolare europea – forma e natura, Mursia, Milano 1979.

 Fulvio Ferrari

Intervento tenuto alla Scuola di Dottorato in Letterature e Culture Comparate di Torino il 30 ottobre 2009.


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